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Penna verde o penna rossa? Quale metodo?

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Essere felici non è solo celebrare i successi, ma apprendere lezioni dai fallimenti. Papa Francesco

Negli ultimi tempi mi è capitato di guardare un video e, ascoltando diversi coetanei, riflettendo sulla mia esperienza, ho messo insieme alcune idee come un puzzle giungendo a diverse riflessioni che hanno interrogato la mia persona ed il mio essere educatrice ed insegnante.

Il video è questo: video

In esso si invita i genitori a porre l’attenzione sui progressi anziché sugli errori dei propri figli, proponendo il metodo della “penna verde” (evidenziare i progressi) ed eliminando quello della “penna rossa” (evidenziare gli errori). Questo fa sì che un bambino cresca in fiducia e sostegno, venga spronato a perseverare nel dare il meglio di sé, a fare di più.

Ho ripensato a questo video in un momento particolare, ero in difficoltà e faticavo a ricordarmi che quella prova che non riuscivo ad affrontare l’avevo in realtà superata più volte, ma in quel momento, ricordavo soltanto le circostanze in cui non ce l’avevo fatta, davanti ai miei occhi apparivano solo i miei fallimenti. Da cosa dipendeva questo? Spesso, gli insuccessi fanno più “rumore” dei successi, lasciano il segno in modo più evidente nella nostra mente. Chissà perché? Forse perché siamo stati educati con il metodo della penna rossa? Forse perché ci hanno abituato a porre l’attenzione sui nostri errori e non sui passi avanti? Forse le nostre insicurezze di bambini si ripercuotono nella nostra esperienza di adulti e non riusciamo a scorgerle, non riusciamo a tranquillizzare quel bambino che è in noi dicendogli:”Stai andando bene, continua così!”, continuiamo a dirgli, invece che è sbagliato, che ha sbagliato, ha commesso un errore, che magari ha fatto una figuraccia… Ma cos’è un errore?

“Nella vita c’è solo una cosa certa, a parte la morte e le tasse. Non importa quanto ci provi, non importa quanto buone siano le tue intenzioni: finirai col commettere degli errori…” Shonda Rhimes

Un errore è l’allontanamento dai principi logici, dalle cognizioni o dalle regole comunemente accettate. E’ un qualcosa di socialmente costruito l’errore, un costrutto sociale ma anche molto utile. Uno sbaglio è come una guida, serve a far crescere, a comprendere, “aggiustare” il tiro, ritornare in gioco seguendo una strada diversa, forse migliore, lungo la quale magari sbagliare ancora, imparare e ricambiar rotta.

Gli errori però non si condannano, anzi, forse gli errori si, ma le persone no, le persone si incoraggiano, si supportano, si motivano a fare meglio. Mai scoraggiare qualcuno che sta facendo progressi. Come sempre allora e non vorrei essere banale, la verità sta nel mezzo, è bene che le figure educative adottino il metodo della “penna verde” laddove già si scorge un bambino insicuro, con una bassa stima di sé, è bene sottolineare ciò che di buono sta facendo, spronarlo a continuare in quella direzione. Non è bene però, a mio parere, rinnegare gli sbagli, far finta di non vedere, eliminare totalmente il metodo della “penna rossa”. Ciò che conta è non giudicare la persona, non condannarla per l’errore commesso affermando “Sei sempre disordinato!” “Scrivi male!” “Sei un disastro!” ma adottare uno stile diverso, spostare l’attenzione dal soggetto all’azione, trasformare il “Sei..” in “Il tuo quaderno è in disordine” “Ho difficoltà a leggere ciò che hai scritto, potresti renderlo più chiaro?”.

Altra cosa fondamentale ma che molto spesso sento, perché fatti in modo inconsapevole, sono i confronti. Ogni bambino è unico, perché paragonarlo ad altri? “Se l’adulto di cui mi fido mi paragona, vuol dire che non basto, che non sono all’altezza” Questo è desolante per un bambino, lede la sua autostima, lo fa sentire meno amato e probabilmente si confronterà già da piccolo con un sentimento poco sano, l’invidia verso l’altro.

Tutto questo è difficile, è molto difficile perché non siamo stati abituati a tale stile educativo ed, inoltre, continuiamo ad essere immersi in contesti in cui il giudizio e l’invidia sono alla portata di tutti, giudichiamo e condanniamo con le parole, spesso addirittura diamo sentenze perdendoci una parte fondamentale dell’altro: l’incontro con lui, la sua conoscenza.

E’ faticoso essere figure educative anche perché dovremmo apprendere l’arte della delicatezza, del dare valore alle parole, dosarle con attenzione per non ferire i nobili sentimenti e gli immani sforzi che un bambino fa per imparare a stare al mondo, per adattarsi e crescere.

Tra genitori, insegnanti, nonni, specialisti, ciascuno con la sua diversa ideologia educativa i nostri bambini sono sempre più confusi, è necessario lavorare per creare alleanze educative, seguire una linea comune e dialogare, non opponendosi a quanto fatto o detto da una delle su’ citate figure, magari anche davanti ai bambini, è devastante per la loro crescita e nei confronti della loro maturità.

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L’imprevisto. Pittura acrilica di Aurora Mazzoldi.

Infine, a tutti quegli insegnanti in conflitto con una delle imprese a mio parere più ardue, quella della valutazione, vorrei dire che molto spesso, dovremmo soffermarci di più sugli sforzi e non solo sui risultati. Ciò che conta non è tanto il risultato raggiunto ma è il percorso affrontato nel raggiungerlo, sono gli ostacoli incontrati e la forza messa in campo per affrontarli che dobbiamo valutare. Attenzione, valutare, non giudicare.

ANGELA ORLANDO ☼

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Niente e nessuno è perduto

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Sin da piccola ho avuto l’abitudine a non gettare via nulla, conservavo ogni cosa pensando che un giorno mi potesse tornare utile “perché non si sa mai”.
Molte volte, ancora oggi, capita che durante una passeggiata noto uno scatolo accantonato e dico:”Ooh stupendo questo scatolo!”, qualcuno in quel momento pensa che io sia matta perché in realtà quello scatolo è un semplice scatolo, ciò che mi appare stupendo è la sua trasformazione, l’immagine di quello che nella mia testa esso è già diventato. Devo dire che molti oggetti da me conservati sono stati utili a decorare, organizzare attività con i bambini, a costruire materiale didattico e a far sì che anche i miei alunni apprendessero l’arte del riutilizzo creativo. Spesso però mi sono sentita una persona veramente disordinata e confusa, insopportabile, con tutte queste buste nascoste qua e là, una per i barattolini di plastica, una per i nastrini, l’altra per la carta ed il cartone e la lista potrebbe continuare.

Ho scelto di condividere su questo blog, tra i tanti, un riciclo in particolare, quello dei fiori. Penso che questo riutilizzo sia tra i più artistici e poetici.

Tutto nacque un po’ di tempo fa, quando mi dispiaceva molto gettare via quel mazzo di fiori ricevuto in regalo, anche se appassiti, i fiori conservavano un fascino particolare, erano belli, un po’ più malinconici e meno luminosi, i colori da accesi e forti erano diventati tenui e delicati, ma erano ancora bellissimi. Allora uno ad uno li ho presi, osservati attentamente, di alcuni ho scelto i petali, altri li ho lasciati interi, mi sono lasciata sedurre, ispirare, li ho amati.

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Con essi ho decorato tante cose, ciò che preferisco sono i quadri che sono venuti fuori e quelli che verranno.

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I fiori hanno un’espressione particolare, come  un volto, qualche volta appaiono radiosi, altre sono come pensierosi, altre volte ancora malinconici o tristi, amo rispecchiarmi in ciascuno di essi. Grazie al loro riciclo ho anche pensato che forse questa mia abitudine nel non gettare via nulla, parte dal concetto che niente e nessuno è perduto per sempre, deriva da una sorta di atteggiamento di speranza. Ci perdiamo e ci ritroviamo, veniamo ritrovati da qualcuno. Tutto ciò che ci circonda non va perduto ma si trasforma, diventa altro da sé o riprende a vivere sotto altre forme. “Tutto ciò che vive deve rigenerarsi incessantemente: il Sole, l’essere vivente, la biosfera, la società, la cultura,l’amore.” (E.Morin, La testa ben fatta.)


Concetti come la trasformazione, la speranza e il tirar fuori le potenzialità, sono anche molto correlati alla mia idea di pedagogia, al mio:”Ohh stupendo questo scatolo!”
La “radicalità della speranza”, come scrive P. Freire, fa parte del bagaglio dell’educatore, consapevole che la realtà dell’ incompiutezza apre la strada al sogno, all’utopia e, concretamente, ad un’intenzionalità educativa da sperimentare ogni giorno nelle relazioni interpersonali e sociali e nella “ricerca permanente” (Freire, 2002, pp. 110-111).
La speranza si applica nei riguardi del singolo educando, per far fruttare le sue potenzialità latenti, per dare voce alla sua promessa implicita, per percorrere l’impervia strada dell’ “essere di più” nonostante le difficoltà.
La forza della speranza sta anche nel dare intensità all’attesa attiva, che evidenzia il valore della pazienza autentica come dimensione carica di energia trasformante “La pazienza non è mai conformismo. Vuol dire soltanto che il modo migliore per fare domani l’impossibile di oggi consiste nel fare oggi ciò che è possibile oggi” (Freire, 1979, p. 88)

La speranza è ciò che dovrebbe guidare l’azione dell’educatore, supportarlo, per fa sì che esca da schemi stereotipati e ripetitivi grazie alla capacità di immaginare e sognare, per edificarla, un’umanità nuova… un nuovo quadro, quello che verrà.

“Se non speri l’insperato, non lo troverai.” Eraclito

Bibliografia:
. Freire P. (2002), La pedagogia degli oppressi, Torino, EGA.
. Freire P. (1979), Pedagogia in cammino, Milano, Arnoldo Mondatori.

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Prendersi cura

E’ da un po’ che mi capita di riflettere su questo termine, l’ho fatto in diverse occasioni. Ho pensato alla cura mentre provavo un senso di benessere occupandomi dei tulipani o mentre cercavo di rendere più accogliente un ambiente, ho pensato alla cura, quella forse innata, mentre osservavo una bambina di pochi mesi dar da mangiare al suo cagnolino o quando sono stata accanto ad un bambino in difficoltà, mi sono sentita “curata” mentre qualcuno mi teneva la mano facendomi sentire più forte e quelle volte, poche, in cui mi sono concessa il tempo per un bagno caldo e la crema profumata.

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Ho pensato a tante cose e per questo scelgo di condividerle.

Prendersi cura è un atto di amore, di un amore che fa crescere, un amore creativo, è un gesto che modifica l’esistente generando bellezza. E’ un atto perché ci mette in moto. Ci prendiamo cura di diverse cose senza magari soffermarci a pensare, ci occupiamo delle persone che ci sono intorno, di chi amiamo, ci occupiamo dell’ambiente nel quale viviamo, della scrivania che usiamo al lavoro, di noi stessi. In tutte queste cose doniamo una parte di noi, forse la più bella, quella che ci appartiene e che sentiamo nostra.

Il curarsi di qualcuno o qualcosa lascia traccia di noi ma bisogna fare attenzione, osservare, ascoltare e capire. Avere rispetto. Non possiamo curare un tulipano donandogli le stesse cose che doneremmo ad una rosa, una rosa ha bisogno di un tempo diverso, di condizioni altre.

Bisogna tornare alla medicina della persona. Per curare qualcuno dobbiamo sapere chi è, che cosa pensa, che progetti ha, per che cosa gioisce e soffre. Dobbiamo far parlare il paziente della sua vita, non dei suoi disturbi. Oggi le cure sono fatte con un manuale di cemento armato:”Lei ha questo, faccia questo; ha quest’altro, prenda quest’altro”. Ma così non è curare. (Umberto Veronesi)

Spesso la cura, che è anche protezione, rischia di diventare iper protezione,”coprire perché nulla faccia male”. I luoghi in cui si pratica l’arte della cura devono essere luoghi di protezione ma non campane di vetro sotto cui riparare dalla vita, in questi luoghi prima o poi l’aria viene a mancare, c’è bisogno che diventino posti in cui la presenza degli altri rende più forti, più capaci di reggere l’urto, di affrontare le paure.

C’è ,infine, un’altra questione, quella del riconoscersi bisognoso di aiuto. Spesso manca il coraggio e l’umiltà di dirsi in difficoltà, manca il coraggio di chiedere, di lasciarsi andare, anche se sei “grande”. Ho incontrato tanti bambini, diversi adolescenti, persone, per il momento ho scoperto che coloro i quali più faticano a “farsi curare”, che rifiutano che qualcuno si occupi di loro, sono quelli più feriti, quelli che appaiono diffidenti e scostanti, dai quali puoi essere mandato anche a quel paese. Sono proprio loro che più di altri ne hanno bisogno, che non conoscono la cura di sé o degli altri, perché fino a quel momento la vita è stata così crudele da non permettergli di fare l’esperienza di qualcuno che si curasse di loro, che li amasse. Tutti abbiamo paura di ciò che inizialmente non conosciamo, o di ciò che ci ha ferito una o più volte, occorre farsi conoscere, non demordere, avere pazienza.

Prendersi cura e lasciarsi curare allora non sempre è semplice, bisogna anche fidarsi. Praticare l’amore che fa crescere.

Allora vorrei cambiare un verbo in questa frase così nota:“E’ il tempo che hai perduto per la tua rosa che ha fatto la tua rosa così importante” (Antoine de Saint-Exupery) in :”E’ il tempo che hai DONATO alla tua rosa che ha fatto la tua rosa così importante”. Un atto d’amore non è mai tempo perso ma il suo opposto.

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Angela Orlando ☼

 

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Il corpo. Elemento funzionale all’apprendimento

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Ricerche recenti nel campo delle neuroscienze hanno ampliato gli orizzonti di diversi ambiti della conoscenza. A tali studi rivolgono l’attenzione ricercatori di diverse discipline, come linguisti, pedagogisti, filosofi, e le possibili conseguenze dei diversi risultati iniziano ad essere usate in molti campi.
Dal punto di vista pedagogico ritengo che una sufficiente conoscenza del funzionamento del cervello, di “cosa avviene al suo interno” nel tempo, quando un individuo è a contatto con contesti, persone, strumenti e scoperte diverse, sia necessaria per costruire esperienze didattiche significative e stimolanti. Sia funzionale ad una didattica efficace e al passo con le recenti scoperte.

Quando la scienza cognitiva e le neuroscienze hanno imparato di più sul cervello e sulla mente umani, è diventato chiaro che il cervello non è uno strumento per finalità generiche. Il cervello e il corpo si sono evoluti insieme, cosicché il primo possa far funzionare il secondo in modo migliore. Gran parte del cervello è infatti preposta alla visione, al moto, alla comprensione spaziale, all’interazione sociale, alla coordinazione, alle emozioni, al linguaggio e al problem solving quotidiano. Tutto ciò che facciamo, che tocchiamo, con il quale abbiamo un’interazione lascia traccia nel nostro cervello, aiuta quest’ultimo a specializzarsi, a rispondere alle esigenze del corpo sin dal ventre materno. C’è globalità, interconnessione, parti che lavorano per un tutto e viceversa.

Esemplare è a questo riguardo uno studio condotto da Lakoff e Núñez, che analizzano l’embodied cognition in matematica affermando:“La matematica come la conosciamo è una matematica umana, un prodotto della mente umana. Da dove proviene la matematica? Proviene da noi. Noi la creiamo, ma non è arbitraria, ossia non è una semplice costruzione sociale contingente dal punto di vista storico. Ciò che rende la matematica non arbitraria è che essa utilizza i meccanismi concettuali di base della mente embodied, come essa si è
evoluta nel modo reale. La matematica è un prodotto della capacità neurali dei nostri cervelli, della natura dei nostri corpi, della nostra evoluzione, del nostro ambiente e della nostra lunga storia sociale e culturale.”

Questo, aggiungo io, non è relativo solo all’ambito matematico, ma tutto fa parte della nostra evoluzione e della nostra lunga storia sociale e culturale come il linguaggio, le concezioni sociali che abbiamo, la scrittura, i codici e gli strumenti che attualmente ci circondano. Infatti le ricerche del nuovo cognitivismo integrano la tesi che ogni cognizione sia incarnata e che anche le cognizioni superiori, che comportano un maggior grado di astrazione, siano l’elaborazione di esperienze corporee. Sviluppando, anche in direzioni innovative, le teorie della mente estesa (A. Clark, D. Chalmers,The extended mind, in Analysis, 58, 1997, pp. 10-23) incentrate sul ruolo dell’ambiente nell’attività mentale, negli studi sulla cognizione incarnata si è privilegiata la teoria della mente incarnata (F. Varela, E, Thompson, E. Rosch, The embodied mind,1991), ossia nei processi cognitivi oltre alle connessioni con il cervello si ritiene costitutiva la dipendenza dalle caratteristiche fisiche del corpo dell’agente (per una presentazione delle diverse teorie dell’embodiment, L. Shapiro, Embodied cognition, 2011, pp. 51-69).

Per tutto questo la scuola ha bisogno di porsi sempre più come un laboratorio di esperienze, dove gli insegnanti modificano il contesto in cui operano quotidianamente, finalizzandolo alle scoperte che gli alunni possono fare per raggiungere competenze.

Per esempio: se studiamo la geometria, costruiamo dei solidi, facciamoli trovare ai nostri alunni per osservarli, studiarli, toccarli, connettendoli alla realtà che ci circonda. In questo modo si sviluppa anche un “senso di appartenenza” alla conoscenza, la motivazione intrinseca (che è quella che conta) aumenta, ed i bambini saranno naturalmente stimolati alla scoperta ed alla ricerca. Questo vale anche per altri campi del sapere come la storia: trasformiamo la nostra aula in un laboratorio in cui i bambini possono costruire gli strumenti utilizzati dagli uomini primitivi se li stiamo studiando, dove possono vivere sulla loro pelle la storia, che ci appartiene, che magari drammatizzando la scena di un attacco di un bisonte ad una tribù di uomini, i nostri alunni possano avvertire sulla loro pelle quali siano state le esigenze dei nostri antenati.

Potrei continuare ancora con tanti esempi ma in questo articolo ci tenevo a far riflettere su ciò che facciamo quotidianamente nelle nostre aule e ciò che potremmo fare.

Lakoff e Núñez, inoltre, nella loro trattazione mostrano che gran parte del sistema visivo è attivo quando noi generiamo immagini mentali senza alcun input visivo e che anche persone non vedenti dalla nascita possono realizzare esperimenti di immaginazione visiva. Inoltre, il sistema visivo è legato al sistema motorio, attraverso la corteccia prefrontale (Rizzolatti, Fadiga, Gallese e Fogassi, 1996). Grazie a questa connessione, gli schemi motori possono essere utilizzati per tracciare all esterno schemi immagine con le mani e altre parti del corpo. Per esempio, si possono usare le mani per tracciare un contenitore visto o immaginato. Grazie a questo input, ho verificato personalmente quanto analizzato dai due studiosi ed osservando i miei alunni parlare e spiegarsi, ho notato che molti concetti, li hanno già costruiti nel corso della loro esperienza, semplicemente non ne sono consapevoli e non hanno ancora gli strumenti e le parole “di noi adulti” per spiegarsi.

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Ecco un bambino che mentre tenta di spiegare come può fare a muoversi una navicella spaziale, simula con il corpo la spinta, concetto fisico che possiede, che ha costruito nei suoi 7 anni di esperienza, gli mancano solo le parole e la consapevolezza di ciò che sa.

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Quest’altro, invece, ci mostra e descrive cosa sia il centro del cerchio, avendo avuto semplicemente tra le mani per un po’ di tempo un foglio di carta ritagliato a forma di cerchio.

Credo che se lasciamo i bambini sperimentare, esprimersi e vivere esperienze con il proprio corpo, possano fare grandi scoperte. Ovviamente è la mediazione dell’insegnante che deve essere al centro, abile a condurre i bambini verso le scoperte che magari si era preposto, fornendo mediatori didattici adatti al suo obiettivo.

Diamo voce ai bambini, forniamo loro la consapevolezza dei concetti che già posseggono, consolidiamo queste conoscenze con esperienze significative.

Angela Orlando ☉

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LIBRIAMOCI! ♡

“Io non lo so
Quanto tempo abbiamo
Quanto ne rimane
Io non lo so
Che cosa ci può stare
Io non lo so
Chi c’è dall’altra parte
Non lo so per certo
So che ogni nuvola è diversa
So che nessuno è come te

Sono sempre i sogni a dare forma al mondo
Sono sempre i sogni a fare la realtà
Sono sempre i sogni a dare forma al mondo
E sogna chi ti dice che non è così
E sogna chi non crede che sia tutto qui…” (L. Ligabue)

Grazie ad una grande donna che ha ancora la capacità di sperare e di sognare, questa settimana sono stata coinvolta in un’avventura stupenda, dalla quale ho imparato tanto. Questa esperienza mi ha aperto ancora una strada nuova verso la comprensione del mondo dei bambini, per questo, scelgo di raccontarvela.

Sono diventata la fatina della diversità per i bambini dell’istituto Don Lorenzo Milani (Quarto, NA)
Ho avuto l’onore di aprire, nel teatro della scuola, “Libriamoci”, la settimana dedicata alla promozione della lettura che ogni anno ha un tema diverso. Quest’ anno, oggetto di questa esperienza, è stato l’inclusione.

Ho progettato ed indossato i panni della fatina Arcobaleno.

Arcobaleno è una fata che ha perso la voce a causa di un incantesimo. Saper parlare era fondamentale per lei, perché il suo ruolo era raccontare storie a tutti gli abitanti del suo regno.

I bambini dell’ Istituto sono così stati coinvolti in un’esperienza di conforto ed aiuto alla fatina, le hanno insegnato la lingua dei segni ed hanno capito che ci sono tantissimi e diversi modi per narrare storie!

Il giorno seguente la fatina è ritornata con la voce! A restituirgliela sono stati il supporto e la magia dei tanti bambini incontrati il giorno prima. Per ringraziarli, la fata decide di raccontare una favola in ogni classe. Ovviamente sono state scelte favole dalla morale inclusiva ed adatte alle età dei diversi alunni. Perché è proprio vero, c’è una favola per ogni età.

È stato entrando nelle classi che ho vissuto la meraviglia dello stupore dei bambini:”Sei una fata vera!?” molti hanno esclamato con sorpresa.

Ho capito che i nostri bambini, che tendiamo a rendere adulti sempre più presto, hanno l’esigenza di sognare, di volare con la fantasia, ne avvertono il bisogno, lo so perché quando ho tolto i vestiti della fata Arcobaleno e sono ritornata semplicemente Angela, mentre ritornavo a casa, ho incontrato uno degli alunni dell’Istituto che mi ha salutata dicendo:”CIAO FATINA!”

Ho fatto esperienza del loro grande e trasparente mondo interno quando, raccontando la favola di un gigante temuto da tutti, solo perché gigante, un bambino ha esclamato:”SE È COSÌ GIGANTE ANCHE IL SUO CUORE È PIÙ GRANDE!” …lasciandomi senza parole.

“Oggi la gente ti giudica per quale immagine hai, vede soltanto le maschere, non sa nemmeno chi sei..” canta Marco Mengoni. Cito questa frase perché una bambina, sempre in merito alla storia del gigante che tutti evitavano, alla mia domanda:”Possiamo aver paura di una persona se non la conosciamo?” mi ha risposto:”E’ COME IL CIBO, SE NON LO ASSAGGI NON LO SAI COM È.”

Ad un certo punto poi, questa favola ha dato avvio ad una discussione introspettiva. Il gigante della nostra storia, innamorato di una fanciulla, arriva a bere una soluzione per diventare “normale”. La fanciulla però non lo riconosce più. Si era innamorata anch’ella del gigante, ma per come lui era. La mediazione didattica ha così portato i bambini davanti alla bacchetta della fatina per parlare degli aspetti che avrebbero potuto modificare del loro carattere, per piacere ai loro amici, ma che non li avrebbero più resi loro stessi. Gli alunni hanno compreso che ci sono caratteristiche che possiamo migliorare in noi, se ledono il rispetto degli altri, ma ci sono anche tante qualità che ci rendono speciali così come siamo, ci colmano di unicità e che è bello conservare.

Ciò che ho vissuto con questa esperienza non è altro che ciò che studiò Bettelheim partendo dall’idea del bisogno di magia del bambino, dall’importanza della fantasia e di come questa lo aiuti a crescere. Lo studioso ribadisce l’importanza delle fiabe poiché potenziano la creatività, dando spazio al gioco semantico e segnico.

Le fiabe, secondo Bettelheim, catturano l’attenzione dei bambini, li divertono, suscitano il loro interesse e stimolano la loro attenzione.

Le fiabe, poiché parlano il linguaggio della fantasia, che è lo stesso del bambino, e sono al di fuori del tempo e dello spazio, evocano situazioni che consentono al bambino, identificandosi con i personaggi e partecipando emotivamente alla storia, di affrontare ed elaborare le reali difficoltà della propria esistenza.

Esse, inoltre, sono utili perchè elaborano l’inconscio e aiutano a tradurre in immagini visive gli stati interiori: «La fiaba, mentre intrattiene il bambino, gli permette di conoscersi, e favorisce lo sviluppo della sua personalità. Essa offre significato a livelli così diversi, e arricchisce l’esistenza del bambino in tanti modi diversi, che non basta un solo libro a rendere giustizia della quantità e della varietà dei contributi apportati da queste storie alla vita del bambino». (Bettelheim)

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Portatori di talenti

 

Mi piacerebbe condividere con voi questo video che presenta molti dei concetti ai quali credo ed ha ispirato in me una profonda riflessione. Osservazioni che ritengo reali perché, in prima persona, mi ritrovo immersa in un contesto storico/culturale in cui essere meccanici non risponde più alle esigenze del nostro tempo. Essere statici o mnemonici non è consono ai ruoli che tendiamo a ricoprire, non è in linea con la precarietà e l’incertezza dei nostri giorni.

In un contesto simile, più della metà dei bambini che incontriamo nelle nostre classi, farà un lavoro che oggi non esiste. La trasformazione digitale modifica il mercato del lavoro repentinamente. Anni fa non avremmo mai immaginato che un ragazzino potesse guadagnare milioni di dollari da una piattaforma come Youtube. Seppur esistano ancora lavori “classici” (cuoco, medico, insegnante, commerciante..) anche questi sono messi a dura prova, c’è sempre più bisogno di avere idee innovative per distinguersi e fare la differenza.

Possiamo individuare, da queste riflessioni, che la scuola oggi ha una nuova missione, deve cambiare sul serio e non solamente “per iscritto”, emanando decreti o indicazioni, per quanto ammirabili possano essere. Dobbiamo cambiare noi che lavoriamo al suo interno. Ma in che senso? Concretamente cosa vuol dire questo?

Bene, per prima cosa, in un contesto in cui il cambiamento è ad una velocità senza precedenti, la cosa più importante su cui lavorare è la Persona. Ogni visino che incontriamo nelle nostre aule ha già una sua storia personale, le sue esigenze e le sue passioni. Non possiamo continuare ad omologare, dobbiamo necessariamente far emergere il talento di ognuno.

Come fare?

Nel mio piccolo posso solo descrivervi le occasioni in cui questi talenti sono giunti prepotentemente ai miei occhi e non ho potuto far a meno di tornare a casa e sognare.

Ho sognato Serena grande chef di un importante albergo (per le persone che amiamo si sa, desideriamo sempre il meglio). L’ho sognata perché mentre preparavamo in classe un torrone al cioccolato ho ammirato la sua grande abilità e concentrazione nell’impastare, mescolare, annusare il risultato ottenuto ed esserne felice.

Ho sognato Gianpaolo designer d’interni, mentre osservavo la sua precisione nel modellare un perfetto, simmetrico e proporzionato tavolino di plastilina.

Ho sognato Francesco Pio promotore di una campagna per la difesa dell’ambiente. L’ho fatto tutte le volte che ho percepito il suo stupore di fronte alla bellezza di una distesa di terreno. Quando ho visto i suoi occhi provare tenerezza nei confronti di uno dei più piccoli dei nostri animali. Quando ha esclamato:”Maestra! Portiamo fuori la formica! Lasciamola vivere!”

Poi ci sono quei bambini che si schierano nei confronti della giustizia e della correttezza, quelli che dicono sempre la verità, anche quando per loro è faticoso, questi ultimi li immagino grandi avvocati, magistrati, ma di quelli corretti però.

Nella mia piccola esperienza ho incontrato anche delle meravigliose Greta, Rossella, Aida, loro le immagino impegnate nel sociale. Le sogno così ogni qual volta sono le prime a dedicarsi ad un bambino in difficoltà. Quando emerge la loro predisposizione nel prendersi cura di un amico che magari viene evitato dalla maggioranza. Loro sono speciali perché si allontanano dal gruppo pur di far sì che colui il quale viene lasciato solo, possa aver la possibilità e la forza di unirsi agli altri.

Ho avuto la fortuna di scoprire tutto questo solo spaziando tra diverse attività, proponendo l’apprendimento per scoperta e la collaborazione, perché tutti possano essere un po’ Serena, un po’ Greta, un po’ Francesco ma poi ritornare ad esprimere al meglio sé stessi, in modo libero ma di certo più ricco.

Oltre ad organizzare l’apprendimento proponendo diverse attività, è fondamentale osservare molto chi abbiamo di fronte. Ritagliamoci del tempo per fermarci un attimo ad ammirare i bambini mentre lavorano, entrano in relazione con gli altri, giocano, parlano.
Infine, fondamentale per fronteggiare un contempo come il nostro, è lo sviluppo della creatività e del pensiero divergente.
Le chiavi per lo sviluppo della creatività sono, a mio parere, le attività laboratoriali di questo tipo:https://creazionidimaestra.wordpress.com/2017/10/09/inventastorie-una-prima-attivita-per-stimolare-la-creativita-dei-bambini/Bisogna aumentare la capacità di immaginazione e la volontà di costruire.

Dobbiamo lavorare con la persona, sulla sua capacità di inventare e connettere. Dobbiamo trovare un punto di incontro tra le nozioni come strumento di allenamento e altri elementi che sono fondamentali, come la capacità di connessione, la multidisciplinarietà, l’apertura mentale al nuovo, al cambiamento, l’apertura all’errore, far sperimentare il coraggio di provare, di ammettere che si è sbagliato. Bisogna continuare a studiare e formarsi, sempre.

Ognuno di noi è portatore sano di uno o più talenti, spero che possiamo essere noi insegnanti ed educatori a farli emergere e brillare!

Sarebbe bello, dato che questo blog nasce per condividersi, se commentaste descrivendo come sognate da grandi alcuni dei vostri alunni ed in che occasione è avvenuta la scoperta del “talento”.

Grazie!
Angela Orlando ☼

La strada più bella da esplorare, per chi lavora con gli uomini, è quella che percorriamo lasciandoci guidare dall’amore per il genere umano, per il mondo, per la vita. Dall’amore che nasce da un sorriso condiviso, da una carezza di conforto, da un dialogo di incontro. Un amore contagioso, che ci da speranza e forza per continuare, anche quando sembra che la nostra azione, in quel momento, non porti a nulla, o ci sembra di star facendo peggio. Non possiamo mai sapere quando, ciò che abbiamo fatto con il cuore, riuscirà ad essere la chiave dell’apertura ad una strada nuova anche per l’altro.

Angela Orlando ☼

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The birth of creativity…

VIGNETTA FINALE

Vi presento una vignetta creata da me raffigurante quella che secondo me è la nascita della creatività!

  1. Tutto prende avvio dal contatto con l’ambiente e le persone che ci circondano, se liberiamo i nostri sensi e lasciamo “contaminare” la nostra mente da ciò che più ci attrae e che è in linea con ciò che amiamo allora si passa alla fase 2 =>
  2. La nostra mente coglie gli input che arrivano dall’esterno, sistematizza, connette, recupera dalla memoria ciò che avevamo accantonato e produce una nuova IDEA;
  3. L’idea che è stata così prodotta la sentiamo nostra, ci appartiene, l’abbiamo costruita nel tempo, grazie alle relazioni e alle scoperte, ciò ci motiva e ci porta a ricercare, a procurarci gli strumenti ed i mezzi per dar VITA a quell’idea, per renderla CONCRETA. Così IL PENSIERO DIVENTA AZIONE e questo è quanto di più creativo conosco fino ad ora;
  4. Abbiamo costruito qualcosa che è evoluto insieme a noi, questo ci pervade di una carica emotiva positiva, produce gioia e ci rende soddisfatti.

Fate vivere questi sentimenti ai vostri bambini, provate a viverli in primis voi, liberate il vostro pensiero creativo!

Un impegno intenso è lo stato emotivo più piacevole, soddisfacente e dotato di significato che possiamo sperimentare.  ( McGonigal)