
Sin da piccola ho avuto l’abitudine a non gettare via nulla, conservavo ogni cosa pensando che un giorno mi potesse tornare utile “perché non si sa mai”.
Molte volte, ancora oggi, capita che durante una passeggiata noto uno scatolo accantonato e dico:”Ooh stupendo questo scatolo!”, qualcuno in quel momento pensa che io sia matta perché in realtà quello scatolo è un semplice scatolo, ciò che mi appare stupendo è la sua trasformazione, l’immagine di quello che nella mia testa esso è già diventato. Devo dire che molti oggetti da me conservati sono stati utili a decorare, organizzare attività con i bambini, a costruire materiale didattico e a far sì che anche i miei alunni apprendessero l’arte del riutilizzo creativo. Spesso però mi sono sentita una persona veramente disordinata e confusa, insopportabile, con tutte queste buste nascoste qua e là, una per i barattolini di plastica, una per i nastrini, l’altra per la carta ed il cartone e la lista potrebbe continuare.
Ho scelto di condividere su questo blog, tra i tanti, un riciclo in particolare, quello dei fiori. Penso che questo riutilizzo sia tra i più artistici e poetici.
Tutto nacque un po’ di tempo fa, quando mi dispiaceva molto gettare via quel mazzo di fiori ricevuto in regalo, anche se appassiti, i fiori conservavano un fascino particolare, erano belli, un po’ più malinconici e meno luminosi, i colori da accesi e forti erano diventati tenui e delicati, ma erano ancora bellissimi. Allora uno ad uno li ho presi, osservati attentamente, di alcuni ho scelto i petali, altri li ho lasciati interi, mi sono lasciata sedurre, ispirare, li ho amati.
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Con essi ho decorato tante cose, ciò che preferisco sono i quadri che sono venuti fuori e quelli che verranno.

I fiori hanno un’espressione particolare, come un volto, qualche volta appaiono radiosi, altre sono come pensierosi, altre volte ancora malinconici o tristi, amo rispecchiarmi in ciascuno di essi. Grazie al loro riciclo ho anche pensato che forse questa mia abitudine nel non gettare via nulla, parte dal concetto che niente e nessuno è perduto per sempre, deriva da una sorta di atteggiamento di speranza. Ci perdiamo e ci ritroviamo, veniamo ritrovati da qualcuno. Tutto ciò che ci circonda non va perduto ma si trasforma, diventa altro da sé o riprende a vivere sotto altre forme. “Tutto ciò che vive deve rigenerarsi incessantemente: il Sole, l’essere vivente, la biosfera, la società, la cultura,l’amore.” (E.Morin, La testa ben fatta.)
Concetti come la trasformazione, la speranza e il tirar fuori le potenzialità, sono anche molto correlati alla mia idea di pedagogia, al mio:”Ohh stupendo questo scatolo!”
La “radicalità della speranza”, come scrive P. Freire, fa parte del bagaglio dell’educatore, consapevole che la realtà dell’ incompiutezza apre la strada al sogno, all’utopia e, concretamente, ad un’intenzionalità educativa da sperimentare ogni giorno nelle relazioni interpersonali e sociali e nella “ricerca permanente” (Freire, 2002, pp. 110-111).
La speranza si applica nei riguardi del singolo educando, per far fruttare le sue potenzialità latenti, per dare voce alla sua promessa implicita, per percorrere l’impervia strada dell’ “essere di più” nonostante le difficoltà.
La forza della speranza sta anche nel dare intensità all’attesa attiva, che evidenzia il valore della pazienza autentica come dimensione carica di energia trasformante “La pazienza non è mai conformismo. Vuol dire soltanto che il modo migliore per fare domani l’impossibile di oggi consiste nel fare oggi ciò che è possibile oggi” (Freire, 1979, p. 88)
La speranza è ciò che dovrebbe guidare l’azione dell’educatore, supportarlo, per fa sì che esca da schemi stereotipati e ripetitivi grazie alla capacità di immaginare e sognare, per edificarla, un’umanità nuova… un nuovo quadro, quello che verrà.
“Se non speri l’insperato, non lo troverai.” Eraclito
Bibliografia:
. Freire P. (2002), La pedagogia degli oppressi, Torino, EGA.
. Freire P. (1979), Pedagogia in cammino, Milano, Arnoldo Mondatori.